20 febbraio 2011

Coordinamento nazionale “No al carbone”

In occasione dell’incontro pubblico promosso dal’associazione “Uniti per la salute” di Savona, si è di nuovo riunito il Coordinamento Nazionale Contro il Carbone che vede uniti i vari comitati, movimenti e associazioni di tutta Italia che operano attivamente nei territori di riferimento. E’ il caso di Brindisi, Tarquinia, Porto Tolle, Civitavecchia e Rossano che hanno partecipato al convegno per portare la propria esperienza a conoscenza della comunità savonese.
In un Teatro Chiabrera gremito di cittadini preoccupati della cattiva informazione dilagante, i presenti, tra cui molti amministratori, hanno avuto l’opportunità di ascoltare importanti medici, studiosi ed epidemiologi che, dopo aver ribadito i gravi danni provocati dall’utilizzo del carbone come combustibile, hanno spiegato l’importanza che nei territori ove sono localizzati gli impianti inquinanti venga effettuata la Valutazione di Impatto sulla Salute (VIS) necessaria a dimostrare le ricadute inquinanti degli impianti energetici e le eventuali correlazioni con i danni alla salute.
In virtù di quanto sopra, dell’assenza di un Piano Energetico nazionale, dell’inadeguatezza dell’impianto normativo e della gestione dei controlli istituzionali a salvaguardia della salute pubblica, e denunciando decine di progetti di costruzione (o riconversione) di impianti per la produzione di energia elettrica basati su fonti non rinnovabili (altamente dannosi per la salute e l’economia dei territori) molto spesso utilizzando un vero e proprio ricatto occupazionale, il Coordinamento ha stabilito di lanciare alcune iniziative comuni di ordine tecnico-legale ed informativo-comunicativo, su tutto il territorio nazionale, che portino alla luce le gravi lacune del sistema energetico italiano e della relativa programmazione.
Programmazione all’interno della quale la VIS, intesa come definita dall’organizzazione mondiale della Sanità, ovvero”una combinazione di procedure, metodi e strumenti per mezzo dei quali una politica, un piano o un progetto possono essere giudicati sui loro potenziali effetti sulla salute di una popolazione, e sulla distribuzione di questi effetti all’interno della popolazione stessa”,e partecipata dalla collettività interessata, non può che essere prioritaria.
Motivo per il quale il Coordinamento,anche in risposta alle continue nuove richieste di costruzione, riconversione, ed ampliamento di centrali a carbone, ha stabilito di farne oggetto della prossima iniziativa comune.





16 febbraio 2011

Sequestro della CO2, boomerang climatico?

Brindisi: l'1 marzo Enel inaugura il progetto pilota CCS
Martedi 1 marzo si inaugura a Brindisi, nell' area adiacente alla centrale termoelettrica Enel Federico II di Cerano, il primo impianto pilota italiano, secondo in Europa, per la cattura e il sequestro della CO2. Interverranno il sindaco Domenico Mennitti, il presidente della Provincia Massimo Ferrarese, il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, l’amministratore delegato e direttore generale Enel Fulvio Conti, il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo e il commissario europeo per l’energia Gunther Oettinger.  

Sequestro della CO2, boomerang climatico?
Un nuovo studio degli impatti sul clima a lungo termine della CCS. Il sequestro della CO2, specie se fatto iniettandola negli oceani, è rischioso per il riscaldamento globale. Il sequestro geologico farebbe male al clima anche con perdite minime nel corso dei secoli. Il rischio è soprattutto per chi verrà dopo di noi.
La cattura della CO2? Rischia di essere un boomerang per il clima: date le possibilità concrete di perdite nei vari metodi di sequestro e i feed-back ambientali che queste potrebbero innescare, praticare la CCS, ossia la cattura e il sequestro della CO2, sul lungo termine potrebbe rivelarsi peggio per il clima rispetto a non praticarla. Da uno studio pubblicato pochi giorni fa su Nature Geoscience (vedi abstract) arrivano nuovi dubbi attorno al possibile contributo di quella che molti vedono come una soluzione irrinunciabile per mitigare l’effetto serra.

A interrogarsi sugli effetti sul clima della CCS sul lungo periodo è Gary Shaffer, climatologo del Niels Bohr Institute e direttore del Danish Center for Earth System Science. Come spiega nell’abstract, Shaffer ha preso in considerazione 5 scenari relativi a diversi metodi e scale di applicazione della CCS, e ne ha ipotizzato gli effetti sul clima su un lunghissimo periodo (fino a 100mila anni). Per la maggior parte degli scenari il risultato è un ampio surriscaldamento, solo ritardato e una forte acidificazione degli oceani.

In particolare, il sequestro del gas serra iniettato nella profondità degli oceani, la cosidetta “deep-ocean carbon storage”, sarebbe il metodo più controproducente: sul lungo periodo porterebbe ad un forte aumento della concentrazione della CO2 negli oceani, con relativa acidificazione, impatto negativo sugli ecosistemi marini e riduzione della capacità di assorbire il gas serra. Migliore lo stoccaggio geologico, ossia in cavità sotterranee naturali. Affinché però il metodo risulti utile – scrive Shaffer – bisognerebbe che le eventuali perdite fossero inferiori all’1% della CO2 stoccata ogni mille anni.

L’alternativa è compensare attivamente le perdite ri-sequestrando la CO2 dall’atmosfera ma, si fa notare, sarebbe difficile far sì che il sequestro mantenga il passo con le perdite. E questo vorrebbe dire che - per mantenere la concentrazione atmosferica della CO2 desiderata - la CCS dovrebbe continuare ad essere praticata per migliaia di anni: un'eredità pesante per il mondo del futuro, paragonabile in un certo modo – fanno notare dal Niels Bohr Institute nel presentare il lavoro - alla gestione delle scorie nucleari.

"La cattura della CO2 - spiega Shaffer - ha molti vantaggi potenziali rispetto ad altre forme di geoingegneria. È sensato modificare il bilancio della radiazione assorbita rimettendo il carbonio dov’era. L’anidride carbonica ha una vita lunga ed è distribuita omogeneamente a livello globale, rendendo possibile l’impresa di controllarla con meno possibilità di "spiacevoli soprese climatiche". Tuttavia non si dovrebbero sottostimare i potenziali problemi di perdite dai depositi sotterranei nel breve e lungo periodo. Il carbonio nella sua forma leggera cercherà sempre di fuggire dal terreno o dai fondali marini, quel che sta avvenendo nel Golfo del Messico dovrebbe essere un avvertimento”.

E conclude: “I pericoli legati al sequestro della CO2 sono reali e lo sviluppo di questa tecnica non deve essere usata come argomento per continuare a mantenere alto il livello alto di emissioni. Al contrario dovremmo limitare fortemente le emissioni adesso per ridurre la necessità di usare il sequestro della CO2 in modo massiccio, riducendo così gli effetti indesiderati e il fardello a carico delle prossime generazioni”.

Un’affermazione assolutamente condivisibile tanto più che oltre ai pericoli legati allo stoccaggio la CCS presenta molte altre controindicazioni (Qualenergia.it, sezione “Sequestro CO2”): comporta consumi maggiori di combustibili e acqua, è costosa e non applicabile su larga scala nell’immediato. Ma soprattutto è una soluzione che ci mantiene legati ad un modo di produrre energia, quello delle grandi centrali a combustibili fossili, che va abbandonato al più presto (e non solamente per la questione clima), mentre dirotta risorse ed energie che andrebbero indirizzate verso soluzioni disponibili subito e con meno controindicazioni.

GM  30 giugno 2010  (www.qualenergia.it)

12 febbraio 2011

PM10 A TORCHIAROLO?COME L’ELEFANTE COL TOPO

di Marco Marangio  (Senzacolonne 12-02-11)


SAN PIETRO VERNOTICO - “La situazione ambientale a Torchiarolo mi sembra la storia dell’elefante col topolino. Si sta dando troppa attenzione al topolino e poco all’elefante”.
In questo modo ironico Giuseppe Serravezza, direttore dell’U.O. Di Oncologia medica negli ospedali di Casarano e Gallipoli, ha commentato l’attuale situazione di crisi ambientale che imperversa nel paese di Torchiarolo.
In occasione dell’incontro pubblico dal titolo “Emissioni inquinanti e tutela del diritto alla salute”, organizzato dall’amministrazione comunale sanpietrana, sono intervenuti anche l’ingegnere Antonio De Giorgi e Marcello Orlandini, direttore responsabile di Brindisi report.
“Attualmente ci si dovrebbe fidare – continua Serravezza – del parere del contadino e non di quello delle aziende, poiché purtroppo oggigiorno c’è corruzione ovunque. Ricordo ancora che, negli anni della mia infanzia,  i miei nonni si scaldavano dinanzi al camino ed erano guai se ci si addormentava la notte con il fuoco acceso. Purtroppo tutte queste cose vengono dimenticate col tempo. Per tali motivi bisogna diffidare dalle dichiarazioni di chi afferma con troppa leggerezza di stare tranquilli, che non c’è nessun problema.”
Serravezza, che tra gli altri suoi incarichi è anche  presidente della Lilt (Lega Italiana Lotta ai Tumori), ha infatti spiegato come molto spesso, a causa delle sue dichiarazioni, sia entrato in contrasto con Giorgio Assennato, direttore Arpa Puglia, senza però mai perdere un rapporto di stima e rispetto.
“Non dovete e non dobbiamo essere vittime del baratto”. L’oncologo continua a rivolgersi al pubblico che lo segue con interesse, ma che soprattutto si sente rappresentato dalle sue ferme  dichiarazioni.
“I dati parlano chiaramente. Il novanta percento delle cause dei tumori sono dovute all’ambiente. Sappiamo che ambiente e salute sono un tutt’uno. Sono due facce della stessa medaglia. Una persona contrae un tumore perché, nell’arco della sua vita, continua ad esporsi inconsapevolmente a delle cause che provocano la malattia. Questa regola non vale soltanto per l’uomo, ma anche per piante ed animali che sono le spie più sensibili di una situazione di degrado che compromette la vita stessa. Queste sono constatazioni che il buon senso del contadino aveva compreso da secoli, mentre la scienza vi è arrivata con molto ritardo. La scienza, infatti, molte volte non è indipendente perché è schiava degli interessi economici. Non possiamo più permetterci di non capire o di non interessarci. Ne va della vita stessa e dire ciò non vuol dire essere catastrofici. I fatti parlano chiaramente. Prima si esponevano ad agenti inquinanti soltanto quei lavoratori che svolgevano mansioni nelle grandi industrie. Adesso l’inquinamento colpisce tutti, anche i paesi più piccoli”.
Un modo, quello espresso da Serravezza, che si è tradotto in un monito per smuovere le coscienze di tutti, affinché cresca la responsabilità per la tutela della salute di tutti.

6 febbraio 2011

Fotovoltaico selvaggio, Angelo Maci: “Subito una moratoria”

di Tiziano Bianchi (fotoservizio di Paola Attanasio)


Il fotovoltaico fa male alla terra. Detta così può sembrare un’affermazione paradossale. E, tuttavia, quello che sta accadendo, ed è accaduto in questi anni, in Puglia racconta la storia di un modello di sviluppo energetico, cosiddetto verde, che si prepara, e in parte lo ha già fatto, a compromettere irrimediabilmente un tessuto economico tradizionale come quello dell’agricoltura e della viticoltura del Mezzogiorno. I parchi fotovoltaici, che stanno crescendo liberamente – selvaggiamente, dicono ormai in molti -, rubano terra all’agricoltura e stanno cambiando il profilo dell’orizzonte salentino. E’ una rivoluzione traumatica destinata a provocare un irreversibile impatto geologico sui terreni, tale da minarne definitivamente la composizione morfologica – come denuncia l’associazione ambientalista TerraRossa di Mesagne e San Pancrazio, con dati e studi scientifici alla mano -; ma anche a cambiare il profilo sociale ed economico di questa lingua di terra che si proietta vorticosamente nel mediterraneo. Il tema è diventato di attualità e travalica i confini del Salento, e quelli della Puglia, per diventare metafora di un futuro di marginalizzazione dell’agricoltura, stretta dentro la morsa di un industrialismo energetico che non inquina l’aria ma che fa morire la terra. Politica e organizzazioni ambientaliste cominciano solo ora, e di certo con enorme ritardo, a parlarne. In tutto questo, tuttavia, la voce del mondo agricolo è rimasta sullo sfondo, a fare da protagonista muto di un processo di cambiamento che lo sta asfissiando. Con qualche eccezione, che vale la pena di citare. Per esempio quella di Angelo Maci, enologo innamorato della sua terra e della viticoltura del Salento: l’autore del piccolo grande miracolo di Cantine Due Palme (http://www.cantineduepalme.it) di Cellino San Marco;  un marchio conosciuto ormai in tutto il mondo e un’esperienza di imprenditoria cooperativistica d’eccellenza, che consente agli oltre mille soci conferitori di trarre dalla viticoltura la giusta redditività; le ultime liquidazioni si avvicinano ad una media di 50 euro a quintale. Quasi il doppio della remunerazione media pugliese.
A dimostrazione del fatto che l’agricoltura, anche quella gestita in forma cooperativistica, può ancora essere un settore economicamente redditizio. Dietro questo miracolo (gli ingredienti: ricerca, qualità, marketing ma soprattutto fedeltà alla tradizione di un territorio), c’è lui, l’enologo presidente del Consorzio di Tutela del Salice Salentino. Un lavoro sulla qualità e sui vitigni autoctoni che ha fatto scuola, il suo. Una voce autorevole dunque, e non solo per la Puglia, anche su temi come quelli che oggi vedono confrontarsi due modelli di sviluppo che fanno fatica a trovare un momento di sintesi. L’allarme, lui, lo aveva dato già un paio di anni fa, quando ancora di queste cose se ne parlava raramente. Non è un tema nuovo, dunque, per Maci quello dell’impatto sull’agricoltura della green economy, applicata secondo un modello industrialista, come sta avvenendo oggi nel Salento: “Questo tema lo ho già affrontato più volte, in tempi in cui forse si sarebbe potuto ancora evitare il peggio. Ma la mia denuncia è rimasta inascoltata, dalla politica e dai miei colleghi del settore vitivinicolo”. Ma andiamo con ordine. Il boom del fotovoltaico nel Salento è un grande affare, i cui protagonisti non sono solo i grandi gruppi internazionali dell’energia: le visure camerali rivelano che dietro a questo business, ben inscatolata dietro partecipazioni azionarie consistenti, c’è anche la presenza di un’aggressiva imprenditoria locale che, legittimamente, non si è lasciata sfuggire l’occasione di moltiplicare i profitti. Un grande affare che negli ultimi due anni ha trovato terreno fertile, è proprio il caso di dirlo, dentro un assetto normativo carente e lacunoso e in un contesto economico,quello agricolo, poco remunerativo: “Ci sono due ordini di responsabilità in quello che è avvenuto – spiega Maci -: una responsabilità delle classi dirigenti politiche, comunali, provinciali e regionali. E una responsabilità che invece interroga da vicino il mondo dell’imprenditoria agricola pugliese”. Quali sono le responsabilità della politica? “L’aver lasciato questo settore senza un’adeguata copertura normativa: se oggi stiamo qui a parlare di fotovoltaico selvaggio, questo accade perché la politica è stata troppo timida e poco lungimirante. Lasciando di fatto mano libera agli imprenditori della green economy”. E il mondo dell’agricoltura, quali le sue responsabilità? “Non essere stato in grado, parlo del mondo cooperativistico, di assicurare una remuneratività adeguata ai viticoltori e agli agricoltori in generale. In una situazione come questa, è inevitabile che si inneschi un meccanismo di abbandono progressivo delle coltivazioni. Il contadino preferisce vendere e monetizzare. E chi acquista lo fa per trasformare queste terre in sconfinati, e redditizi, parchi fotovoltaici.
Ed è qui che il mondo cooperativistico deve trovare il coraggio di aprire un dibattito serio; il lavoro in campagna deve essere messo nelle condizioni, e lo si può fare, di produrre un reddito adeguato: solo così potremo convincere i nostri agricoltori a non abbandonare le loro terre”. Il risultato è che da Brindisi a Mesagne, oggi, gli impianti fotovoltaici hanno ricoperto di specchi energetici ettari ed ettari di terreno agricolo più o meno pregiato. Installazioni che hanno cambiato irreversibilmente l’architettura del paesaggio tradizionale e lo hanno trasformato in una surreale visione lunare. Ma anche il dato paesaggistico è qualcosa che ha a che fare, economicamente, con una bottiglia di vino; la lezione ormai dovrebbero averla imparata tutti: un’etichetta si vende, e si vende ad un prezzo adeguato, solo quando è in grado di raccontare magie, segreti e suggestioni di un territorio. Quando è rappresentazione plastica e poetica del terroir che la fa nascere. Una bottiglia di vino deve essere “un ambasciata del territorio”, ama ripetere spesso uno dei maestri della viticoltura internazionale come il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga. E’ la lezione francese che i viticoltori d’oltralpe seguono da secoli. Anche su questo punto Maci, concorda: “Abbiamo fatto un lavoro lungo almeno 15 anni per far diventare il nostro Negramaro un’etichetta venduta in tutto il mondo. Insieme al Negramaro abbiamo venduto il Salento con il suo profilo paesaggistico inconfondibile, con i suoi odori e i suoi sapori. I parchi fotovoltaici realizzati fino ad oggi hanno danneggiato pesantemente anche la nostra immagine, l’immagine veicolata attraverso le nostre bottiglie di vino. E questo è un danno economico già ben misurabile”.
Lei, dunque dice no al fotovoltaico? “Io dico no al fotovoltaico selvaggio, quello che inquina il paesaggio e depreda i terreni a vocazione agricola. Dico no ai pannelli solari lungo le strade delle nostre campagne perché questo incide negativamente sul nostro lavoro. Dico invece sì ad un fotovoltaico pulito, senza impatto ambientale nocivo per il nostro paesaggio”.
Forse, però, ormai è troppo tardi, non trova? “Alcune operazioni, come a Brindisi o a Mesagne, ormai sono state compiute e la politica, che ora sta cercando faticosamente di mettere delle regole, è intervenuta con estremo ritardo, quando ormai i buoi erano fuori dalla stalla. E tuttavia sono convinto che alcuni altri interventi, che per ora sono solo ancora in una fase progettuale come la famigerata centrale di San Pancrazio, possano ancora essere fermati. Quello che è certo è che in questo settore c’è bisogno subito di una moratoria”.

15 gennaio 2011

Processo Coke: il pm chiama in causa i responsabili Enel

(tratto dall'articolo di Sonia Gioia pubblicato sul Quotidiano di Brindisi sabato 15 Gennaio)

Decisione shock del pubblico ministero De Nozza. Si aggravano le accuse nei confronti dei tre imputati nel processo per danni provocati al suolo e al sottosuolo della città dal carbonile scoperto dell' Enel a partire dal 2005.
Le ipotesi di reato suppletive, che si sommano a quelle di "getto pericoloso di cose" per aver versato "quantitativi imprecisati di polvere di carbone" non avendo adottato misure idonee a coprire il parco di raccolta del combustibile e i camion, sono frutto di un supplemento di indaginedisposto dal pubblico ministero. Nello specifico il capo d'imputazione di nuovo conio contesta:" la mancata adozione di misure idonee e adeguate, quali la impermeabilizzazione del piano di stoccaggio del carbone, atti a prevenire la contaminazione delle matrici ambientali di suolo e sottosuolo, e il deposito e/o abbandono incontrollato nelle stesse, di rifiuti liquidi come conseguenze dirette e immediate dello stoccaggio del parco carbone di grandi quantità di combustibile a cielo aperto".  Secondo il magistrato inquirente, i tre imputati concorrevano, "unitamente al gruppo Enel", a causare una contaminazione " del suolo e del sottosuolo dell'aria destinata allo stoccaggio del carbone, matrici ambientali nelle quali finivano per essere abbandonati e o depositati in modo incontrollato, rifiuti liquidi, nella specie percolato prodotto dal contatto fra il carbone e l'acqua derivante sia dalle precipitazioni meteoriche che dalla pratica di inumidire con getti d'acqua sui cumuli per provare a ridurre l'aerodistrazione".
Ipotesi di reato che c'entrano con la qualità del suolo e del sottosuolo, ma anche con la qualità della vita e della salute pubblica nella città di Brindisi. Ipotesi che appesantiscono enormemente il teorema accusatorio a carico dei tre imputati, ai quali il collegio presieduto dal giudice Gabriele Perna ha concesso due mesi di tempo per le controdeduzioni del caso. Il processo Coke, nato dall'inchiesta avviata nel 2005 dalla Procura di Brindisi partendo dall' esposto di due titolari di auto della zona industriale, contava inizialmente ben 55 indagati. Il 21 Novembre 2009, l'inchiesta si chiude per ben 52 degli imputati con una parola sola "prescrizione", manna salvifica per vecchi dirigenti delle società Enel ed Edipower e titolari di aziende di trasporto, i cosiddetti "padroncini", di Brindisi.
Il nuovo fronte di indagine scoperchia una verità difficile per la città prima ancora che per gli imputati, sempre che le ipotesi acquisiscano sostanza di prova nel corso del dibattimento. Per tanti questo è un fatto, lo scenario di danni ambientali e inquinamento provocato dal carbonile è segreto di Pulcinella. Ma non fa ridere: