Un’azione a Piazza di Spagna, una conferenza stampa e un sit in
davanti alla sede dell’Enel e ben cinque interventi di azionariato
critico durante l’assemblea della compagnia.
La campagna
StopEnel, composta da oltre 50 realtà della società civile italiana e da
una ventina di gruppi internazionali, in occasione dell’assemblea degli
azionisti dell’Enel ha tenuto una giornata di mobilitazione su più
fronti.
Ma il messaggio indirizzato all’azienda per il 30 per cento ancora di
proprietà dello Stato italiano è univoco: serve un cambiamento totale
del modello energetico proposto, improntato sull’inquinante carbone, ma
anche su geotermico e idroelettrico, che tutto sono tranne che fonti
pulite e prive di massicce conseguenze socio-ambientali.
Un nuovo modello energetico non più calato dall’alto ma costruito a
partire dai territori, dalle vertenze decennali che gruppi di cittadine e
cittadini liberi continuano a ravvivare, seppur spesso isolatamente,
fermando i progetti o limitandone i danni. Più in generale un modello di
sviluppo che tenga conto di tre valori fondamentali oggi calpestati
ferocemente in ogni singola vertenza territoriale: la SALUTE, la quale
non può più essere posta in secondo piano rispetto a profitti e bilanci;
il LAVORO, come strumento di dignità e riscatto, come servizio alle
comunità, e non più come strumento di ricatto e sfruttamento di cose e
persone; la DEMOCRAZIA, ovvero l’esigenza che siano le comunità a
decidere del proprio destino e del proprio sviluppo.
I comitati italiani si ritrovano ormai a combattere battaglie
decennali, come quella contro il carbone a Civitavecchia, prima città
nel Lazio e le terza in Italia per casi di tumori alle vie respiratorie.
L’autorizzazione integrata ambientale rilasciata lo scorso marzo non
sembra risolvere il problema. Forse lo peggiora. Sono stati infatti
ampliati i limiti di emissione di monossido di carbonio, mentre non è
stato inserito lo sbarramento dello 0,3 per cento di zolfo nel carbone.
Durante il nosro intervento all'assemblea |
La centrale a carbone più grande d’Italia, la Federico II di
Brindisi, ha una storia simile a quella di Civitavecchia in materia di
impatti su popolazione e territorio (un’ordinanza del sindaco del 2007
ha impedito la coltivazione nei terreni attorno all’impianto per
un’estensione di circa 400 ettari causa la forte presenza di metalli
pesanti), ma anche un annoso caso giudiziario legato allo smaltimento
illegale di sostanze nocive. Nel 2009 due distinte operazioni della
polizia hanno scoperto che oltre 200mila tonnellate di fanghi e gessi
provenienti dalla centrale finivano in due discariche abusive calabresi.
I processi nei confronti dei presunti responsabili sono ancora in
corso.
Di stretta attualità, invece, l’incidente occorso all’impianto di La
Spezia, dove lo scorso 26 marzo si è verificata una fuoriuscita di
ceneri del carbone in seguito alla rottura di una valvola dei silos di
stoccaggio. Ma già nel 2012 anno diverse emissioni anomale dal camino ed
emissioni diffuse al pontile di sbarco e lungo il nastro trasportatore
del carbone hanno indotto una trentina di cittadini a presentare un
esposto alla magistratura. Studi recenti, effettuati tra le altre dalla
U.S. Geological Survey, hanno mostrato che dai derivati delle ceneri del
carbone, usati per fare il manto stradale, con il tempo si
volatilizzano elementi cancerogeni ai quali sembrano particolarmente
esposti i bambini. Inoltre le sostanze tossiche possono raggiungere le
falde acquifere e contaminarle.
La lotta dei comitati italiani contro il carbone trova una sponda in
Romania e Albania, dove i progetti di Galati e Porto Romano sono
avversati perché, nel primo caso, esacerberanno una situazione già resa
critica dalla presenza di un’acciaieria, mentre nel secondo rischiano di
far tornare indietro nel tempo un territorio recuperato grazie ai fondi
delle Nazioni Unite, dopo decenni di inquinamento indiscriminato dovuto
alla presenza di un sito di stoccaggio chimico voluto dal regime
comunista. Ma attenzione quando l’Enel parla di investimenti nelle rinnovabili,
ammonisce StopEnel. È il caso del geotermico sull’Amiata. La quantità di
anidride carbonica (CO2) prodotta dalle centrali geotermoelettriche
realizzate in quell’angolo di Toscana è di 852 tonnellate per GWhe, a
differenza di una centrale alimentata a metano che ne produce circa 350 e
di una una termoelettrica ad olio combustibile (molto inquinante) che
ne produce 700. Rinnovabili “di facciata” sono anche le grandi dighe,
come quelle in America Latina in costruzione o in fase di progettazione e
che l’Enel ha in parte “ereditato” dalla sua controllata spagnola
Endesa. Se per la diga di Palo Viejo (Guatemala), ormai ultimata, si
chiedono giuste compensazioni per i danni subiti dalle comunità, per gli
impianti di El Quimbo (Colombia), Hidroaysèn (Patagonia cilena) e in
territorio mapuche ci si sta battendo per uno stop definitivo ai lavori,
considerate le vaste conseguenze socio-ambientali legate alle opere.
Tanto per fare qualche numero, in Colombia saranno sommersi 5.300
ettari di fertilissimi terreni agricoli e 840 ettari di Foresta
Amazzonica; nella regione cilena dell’Aysen si imbriglierebbero due
fiumi ancestrali in uno dei punti di maggior pregio naturalistico della
Patagonia, mentre per trasportare l’energia verso le miniere del nord
del Paese si dovrebbe costruire una linea di trasmissione di 2mila
chilometri che dovrebbe passare per 9 regioni, 66 comuni e 4 parchi
nazionali,costando la metà degli 11 miliardi di dollari stimati per
l’opera nel suo complesso. Quello finanziario è solo uno degli aspetti
controversi di un progetto che, secondo i sondaggi, la popolazione
cilena non vuole e che lo stesso socio dell’Enel, la Colbun, inizia a
ritenere “a rischio”.
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