Sabato 26 luglio abbiamo collocato alcuni cartelli
lungo il perimetro dell’area altamente contaminata di Micorosa per
segnalare l’estrema pericolosità dell’accesso. Una iniziativa simbolica,
ma non solo, che vuole mettere in luce l’inerzia delle Istituzioni
nella difesa della salute dei cittadini che continuano a frequentare la
zona.
“Micorosa”, situata alle spalle della zona industriale di Brindisi, con
un’estensione di circa 50 ettari, è paradossalmente compresa nella Parco
regionale delle Saline di Punta della Contessa. Una discarica abusiva
nella quale, tra il 1962 e il 1980, sono stati sversati circa 1,5
milioni di metri cubi di fanghi tossici e residui di lavorazione
industriale del petrolchimico.
La zona fu interdetta al pubblico solo
nel febbraio 2011, con un’ordinanza del Sindaco e l’installazione di un
cancello lungo la strada principale che però lascia completamente libero
l’accesso attraverso una strada adiacente secondaria. Nessuna
recinzione quindi, nessun cartello all’interno che ne indichi la
pericolosità.
In occasione dei nostri sopralluoghi, con non poco stupore, abbiamo
incontrato pescatori, famiglie di bagnanti, ragazzi in bicicletta o a
piedi spesso inconsapevoli dell’effettivo livello di avvelenamento della
zona e delle acque.
Le amministrazioni comunali che si sono succedute in tutto questo tempo,
almeno dal 1995 ad oggi (data della prima inchiesta), avrebbero dovuto
segnalare opportunamente l’area per difendere l’incolumità pubblica e
preservare la salute di ignari visitatori che dovessero accedere al
Parco.
Attendiamo fiduciosi che la Magistratura, sollecitata dai recenti
esposti dei cittadini, possa ora svolgere al meglio il proprio lavoro e
possa finalmente far luce sull’intera assurda vicenda verso la quale,
per troppi anni, si è voluto erigere un muro di omertoso “silenzio
istituzionale”.
Addirittura qualcuno si fregava già le mani, in tempi recenti,
pregustando di spartirsi quei 40 milioni di “briciole”, pensando di
accelerare l’esame e l’avvio del progetto Sogesid: la “faraonica” opera
per la “messa in sicurezza” (ma non per la vera bonifica), peraltro
attuata già all’interno del perimetro del petrolchimico e dimostratasi
inefficace. La costruzione di un muro di cemento che dovrebbe contenere i
veleni e tombare per sempre anche le responsabilità.
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