Innanzitutto ringraziamo Jovanotti per aver risposto alla nostra lettera di ieri, un commento di risposta però che ci ha lasciato alquanto delusi e del quale ne riportiamo un passaggio: -La faccia sul manifesto è la mia, i valori che canto nel mio spettacolo
sono quelli in cui credo e non sono negoziabili. Detto questo sappi
che prima di firmare l'accordo ho avuto più di un confronto con loro e
con organismi critici della loro attività e alla fine ho preso la
decisione perchè credo che una grande azienda come questa possa produrre non
solo fatturato e posti di lavoro ma anche cultura della sostenibilità.-
Ecco appunto! Il confronto con gli organismi critici.
All'assemblea della multinazionale del 10 maggio scorso, l'azionariato critico ha chiesto conto al management di inchieste, corruzione, omissioni e sfruttamento dei territori che accolgono gli impianti estrattivi. Dalla Nigeria al Kazakistan, passando per la Procura di Milano. Poche le risposte, nell'assordante silenzio del ministero dell'Economia.
Ecco appunto! Il confronto con gli organismi critici.
All'assemblea della multinazionale del 10 maggio scorso, l'azionariato critico ha chiesto conto al management di inchieste, corruzione, omissioni e sfruttamento dei territori che accolgono gli impianti estrattivi. Dalla Nigeria al Kazakistan, passando per la Procura di Milano. Poche le risposte, nell'assordante silenzio del ministero dell'Economia.
di Elena Gerebizza, Re:Common - 17 maggio 2013
Integrità e sostenibilità sono state le
due parole d'ordine poste al centro dell'assemblea degli azionisti dello
scorso 10 maggio di Eni. Integrità per contrastare le accuse
di corruzione piovute a cascata sull'azienda e sul suo amministratore
delegato, Paolo Scaroni, indagato nel maxi scandalo di corruzione
internazionale che vede protagonista una controllata dell'Eni, la Saipem, in Algeria. Ma non solo: Kazakistan
e Iraq allungano la lista dei casi finiti sotto la lente della
magistratura, italiana e internazionale. Ai quali potrebbe aggiungersi
un nuovo caso segnalato dal direttore dell'organizzazione inglese Global Witness proprio nel corso dell'assemblea della settimana scorsa.
Sostenibilità per dimostrare che per l'azienda “non si tratta di impegni volontari”, ma che usando le parole dell'Ad Paolo Scaroni,
“la sostenibilità è il principale strumento della presenza dell'Eni nel
mondo”. E a confermarlo sarebbero i mercati finanziari, vista la
presenza dell'azienda negli indici di sostenibilità del Dow Jones e del
Footsie4good.
In realtà, l'azienda ha giocato in difesa su entrambi i fronti, con risposte evasive sia alle domande presentate in forma scritta prima dell'assemblea dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica -con la collaborazione di Re:Common e Amnesty International- che alle domande presentate in sala nel corso della discussione sull'approvazione del bilancio.
Sotto attacco le misure anti-corruzione che l'azienda avrebbe
dovuto mettere in piedi dopo lo scandalo di corruzione per l'appalto del
terminal di esportazione del gas a Bonny Island in Nigeria,
in cui Eni e altre multinazionali avrebbero pagato mazzette per 182
milioni di dollari al governo nigeriano, aggiudicandosi il contratto di
costruzione dell'impianto. Nel luglio del 2010 Eni ha patteggiato con le
autorità statunitensi (Dipartimento di Giustizia e Security and
Exchange commission) il pagamento di 365 milioni di dollari, firmando un
accordo (“Deferred Prosecution Agreement”) che di fatto condizionava la
chiusura del caso all'implementazione di un sistema anti-corruzione
interno “adeguato” entro due anni. Proprio l'adeguatezza di quel sistema
interno, definito “chiaro ed efficace” dal presidente del consiglio di
amministrazione Giuseppe Recchi, viene messa in dubbio
dalle diverse indagini internazionali in corso relative a fatti avvenuti
nel corso dei due anni di pendenza.
La dirigenza Eni ha di fatto risposto prendendo le distanze dalla
controllata Saipem, che nonostante rientri nel bilancio consolidato del
gruppo, “è quotata in borsa” e quindi “hai i propri organi autonomi e
funzioni di controllo” ed “è stata sempre trattata come una società
indipendente”. In Kazakistan, la Procura di Milano
avrebbe dato ordine nell'aprile 2012 di “applicare a Eni la misura
dell'interdizione per un anno e sei mesi dall'esercizio delle attività
previste nell'accordo sottoscritto con la Repubblica del Kazakistan e
nei successivi atti amministrativi e/o negoziali, o di voler disporre
[…] la prosecuzione delle medesime attività per il periodo indicato
sotto la sorveglianza di un commissario”. Misure su cui il giudice per
le indagini preliminari ha già rimandato due volte una decisione
definitiva, ma che danno il senso della situazione. Un contesto in cui
l'azienda è sospettata di avere gonfiato le fatture di fornitura con
l'obiettivo di creare illecitamente fondi neri in un progetto, quello di
Kashagan, i cui costi complessivi sarebbero stimati in 187 miliardi di dollari.
Scaroni ha preso poi le distanze dalla spinosa questione di Malabu,
sollevata dal direttore di Global Witness Simon Taylor presente
all'assemblea. Al centro, la titolarità del blocco OPL 245, situato al
largo della costa nigeriana, su cui Shell e Eni
avrebbero messo gli occhi diversi anni fa, e che secondo Eni -dopo oltre
10 anni di disputa giudiziaria tra Shell, la società Malabu (intestata a
Dan Etete, ex ministro del petrolio all'epoca della dittatura di Sani Abacha)
e il governo nigeriano- avrebbero avuto “l'opportunità” di acquistare
grazie a una “mediazione” del governo nigeriano. Scaroni non ha risposto
in merito ai diversi incontri che sarebbero avvenuti tra alcuni top
manager dell'azienda e Dan Etete prima della firma del contratto, come
anche sull'altissima commissione richiesta da uno dei due intermediari,
Emekar Obi, addirittura del 19% (percentuali oltre il 5% sono
considerate sospette dal governo degli Stati Uniti, nda) che secondo lo
stesso avrebbe dovuto condividere con alcuni alti dirigenti dell'azienda
italiana. È possibile che nemmeno una commissione così alta abbia fatto
accendere la luce rossa all'interno dell'azienda, visto il codice
interno anti-corruzione?
Sul lato della sostenibilità, Amnesty ha insistito
su scadenze certe sia per terminare con la pratica del gas flaring che
per le necessarie bonifiche nel Delta del Niger, senza riuscire ad
ottenere risposte adeguate. Secondo l'azienda, in Nigeria si brucerebbe
in torcia “solo” il 15% del gas associato (senza fornire alcun dato
complessivo o per progetto), mentre le perdite e l'inquinamento
ambientale sarebbero causati principalmente da sabotaggi e furti di
petrolio. Affermazioni che non è possibile verificare, vista l'assoluta
mancanza di trasparenza e di rispetto della normativa nigeriana anche
riguardo gli interventi in caso di incidenti, che dovrebbero essere
condotti con la partecipazione di membri delle comunità colpite e del
governo, e non in maniera unilaterale dalle aziende petrolifere, proprio
per garantirne l'oggettività.
Il tutto nel silenzio del ministero del Tesoro, azionista di
maggioranza e presente in sala tramite un suo funzionario, che ha
evitato di commentare persino il punto sulle retribuzioni. Scaroni
quest'anno ha ricevuto un bonus di oltre un milione, portando il suo compenso a 6,3 milioni di euro l'anno.
(articolo pubblicato su altreconomia.it )
leggi anche La fedina penale di Paolo Scaroni
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